Il patriarcato esiste ancora, è il momento della svolta
Una foto.
Quella foto. Che è impossibile dimenticare o nascondere. C’è Giulia sull’altalena, in mezzo al verde, il sorriso accennato, lo sguardo che cerca la vita. Il Comune veneto di Vigonovo, dove abitava, ne ha fatto una gigantografia e l’ha messa sulla facciata.
Nell’attesa di capire cosa immaginare per gli studenti, quali corsi, quali docenti, quali libri, si potrebbe partire da quell’immagine. All’ingresso delle scuole italiane. «Chi è? Una ragazza come voi, Giulia Cecchettin: aveva 22 anni, stava per laurearsi. La sua esistenza stroncata, non cancellata». Una foto può tanto. Come Falcone che parla all’orecchio di Borsellino, lo fa ridere e ci ricorda ogni volta, con tutto il rispetto per le sfumature, che esistono ancora il bene e il male. E chi è in buona fede, dopo millenni di civiltà, conosce la differenza.
Il tema non è perché Giulia, e proprio Giulia, la ragazza sull’altalena, sia diventata il «caso» nazionale, capace (per fortuna) di accendere le coscienze e le piazze. È un quesito già superato. Il punto vero è capire se c’è un’occasione di svolta o un polverone all’italiana. Se il dibattito si fermerà alla caccia ai colpevoli, dove il tribunale del popolo accuserà tutti quanti oggi per assolvere tutti quanti domani, o se faremo un passo avanti decisivo. Un salto nella testa. Un cambiamento nelle norme ma anche nelle parole, nella sicurezza ma pure nei comportamenti. Il lascito morale di Giulia Cecchettin, usiamo il termine morale, è il passaggio dalla discussione accademica alle due parole chiave, «ci riguarda». Non riguarda solo le donne e gli assassini. Ma tutti. La società intera. In ogni istante.
E gli uomini. Prima di tutto gli uomini. Sicuramente gli uomini. C’è bisogno ancora di dirlo? Chi è che uccide? I marziani? Gli antichi egizi tornati tra noi? Sono così vicini che sono i vicini di casa. Una strage nostra, infinita, moderna, in ogni provincia d’Italia e in ogni scalino sociale: l’unico campo in cui, orribilmente, vige l’uguaglianza.
È diventata sterile anche la discussione sul patriarcato. Certo che c’entra. Lo racconta anche l’etimologia: il greco antico «arco», comando, e il richiamo sia al padre che alla patria, nel senso di discendenza, tribù, sangue. La supremazia, l’uomo, la stirpe. Il patto ancestrale per cui qualcuno guida e un’altra persona segue o subisce. La doppia educazione del passo avanti maschile e del passo indietro femminile. La cultura della conquista per lui e l’educazione sentimentale per lei, come nei romanzi dell’Ottocento.
Tutto superato? Non sempre, se il 70 per cento dei femminicidi è preceduto dallo stalking. E se alcuni uomini, spesso giovani, si sentono padroni della vita e della morte. Tocca alle mamme è in parte vero. Tocca ai padri con i figli maschi è altrettanto vero. Comportamenti, modelli reali, prima delle parole. I ragazzi vedono (sempre) quello che i genitori fanno, ascoltano (ogni tanto) quello che dicono. E la scuola può tanto, non tutto, e non solo aggiungendo qualche ora, ma nel senso più profondo: il valore dell’affettività, la formazione emotiva sono onnipresenti o non sono nulla. Farebbe bene anche una lezione in più di poesia, da Saffo fino ad Alda Merini passando dagli stilnovisti. La cura dell’anima è materia complessa (e meravigliosa).
Il patriarcato dentro di noi. La perdita del patriarcato come ferita permanente. «Sono colpevoli solo gli assassini e non tutti gli uomini» è il pensiero più scontato del decennio. Grazie. Evidente. La responsabilità è, resta, sempre personale, abbiamo fondato lo Stato di diritto. In tribunale e in galera vanno i killer. Ma qui si parla di un’assunzione di responsabilità diffusa e collettiva. Cioè culturale. Si può fare un cambio di passo comune, si può dire che così «non funziona»? Si può voltare pagina, uomini e donne assieme, stessa marcia, stessi obiettivi, come suggerisce da oltre dieci anni la nostra «@27ora», l’agorà digitale inventata da Barbara Stefanelli e Luisa Pronzato? È il contrario della guerra dei sessi: è il disarmo consensuale. Fianco a fianco, finalmente alla pari.
Che sul Corriere, in questi giorni, tante firme maschili abbiano scritto di questo, proprio di questo, e non di politica, economia, conflitti, è una scelta e un primo traguardo. Gli uomini allo specchio: non per trovarsi bellissimi, ma per interrogarsi. Almeno interrogarsi. Non c’è una sola strada, ma le vie sono tante e possono convergere. Il linguaggio, che per i Sapiens coincide con la civiltà. La cultura, come dimostra il film di Paola Cortellesi, che è arrivato nelle sale come una benedizione. Le scelte sulla sicurezza, perché la prevenzione, i controlli, gli interventi tempestivi possono cambiare la realtà. L’indipendenza economica e la parità sostanziale. La scuola e i modelli in famiglia, ma si è detto. Le regole più chiare e facili, senza aumentare necessariamente le pene, che è il grande alibi per non fare altro. Cesare Beccaria, un italiano immenso, ci ha insegnato quasi 300 anni fa che a fermare i reati non è l’entità dell’ipotetica condanna ma è la rapidità e la certezza del giudizio. Con tutto l’affetto per la letteratura fantasy, anche «Dei delitti e delle pene» è un testo mirabile.
Le piazze di oggi, con gli uomini e le donne, con tutte le età e le opinioni politiche, con chi governa e chi è all’opposizione, potranno dirci che il 25 novembre è una data importante nella storia del Paese. Non il giorno della colpa, ma quello della svolta.
Sono 700 anni che nessuno è riuscito a superare la sintesi (sublime) di Dante: «Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza». I bruti. Quando sbagliamo parole o gesti lo sappiamo, nell’anno 2023 non possiamo non saperlo. Basterà pensare alla foto di Giulia, che è diventata l’amica del cuore dell’Italia. La sua altalena è sospesa nell’aria, sopra le nostre miserie.
Venanzio Postiglione
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